La pedagogia di Bruno Munari

La pedagogia di Bruno Munari

Grazie alla divulgazione e all’attenzione che ha ricevuto tra gli insegnanti, in particolar modo di scuole materne ed elementari, l’attività di Munari in quest’ambito è probabilmente quella più nota: se la diffusione geografica si potesse rappresentare con un fascio di bandiere, qui davvero si vedrebbero sventolare molti colori.

E di frequente, in particolar modo in relazione all’esperienza dei laboratori, vi è entrato non solo attraverso le opere, ma proprio di persona, per sperimentare ogni volta in modo diverso il principio del “Lao Tse” (azione senza imposizione di sé), su cui si fonda la sua didattica. Partendo dalla consapevolezza che la sperimentazione diretta facilita la comprensione e la trasmissione delle conoscenze, l’artista ha messo a disposizione la propria capacità di scegliere e fornire materiali e suggestioni visive, perché il bambino potesse egli stesso agire, liberando la propria curiosità in un gioco solo minimamente guidato, suggerito soprattutto attraverso le immagini e le dimostrazioni pratiche.

Più che un metodo, come oggi è erroneamente definito, quello proposto da Munari è un modo di porsi e di proporsi nei confronti dei bambini; ed in questa assenza di una strutturazione rigida stanno la fortuna e la universale possibilità di attivazione dei laboratori che vi si ispirano, che dunque possono essere applicati in contesti culturali molto differenti, facilitando l’integrazione, e la comunicazione.

Mostrando con strappi di carta come si sviluppa un albero, facilitando la comprensione di un’opera d’arte, bucando le pagine di un libro per far vedere cosa c’è al di là delle apparenze, consentendo di scomporre l’immagine di un volto per ricostruirne a piacimento l’espressione, l’autore ha come di consueto compiuto gesti semplici e realizzato una delle opere più grandi e complesse che si potessero prevedere.

Con la sua straordinaria capacità di guardare, ha trovato la strada per prestare gli occhi, per trovare gli occhi degli altri e per portarli ovunque egli volesse. Persino a vedere l’assenza, che è una delle imprese più difficili, nell’arte.

Una volta, in un libro, Munari ha raccontato la storia di Cappuccetto Bianco.

“Assolutamente sconosciuta fino al giorno in cui è andato in stampa questo libro era la storia di Cappuccetto Bianco

Ora è qui in queste pagine ma non si vede.

Si sa che c’è questa bambina tutta vestita di bianco, sperduta nella neve.

Si sa che c’è una nonna, una mamma, un lupo. Si sa che c’è una panchina di pietra nel piccolo giardino coperto dalla neve, ma non si vede niente, non si vede la cuccia del cane, non si vedono le aiuole, non si vede niente, proprio niente, tutto è coperto dalla neve. Mai vista tanta neve “

Le pagine di quel libro sono tutte candide. Le giri, e sono completamente bianche, una dopo l’altra. Ma all’improvviso cosa spunta, proprio nell’ultima facciata? Un paio di occhioni azzurri, solo quelli, che ti guardano, cristallini e curiosi (chissà se sono veramente di Cappuccetto Bianco). Per un’epifania dello sguardo, non serviva altro.